Sulla carta

Roberto Beccantini12 marzo 2023

Nel campionato degli «sfrattati dal Napoli», quello che resta della Juventus ha sconfitto per 4-2 quello che resta della Sampdoria, ultima della classe con la Cremonese. Il risultato è lo stesso del derby. I migliori sono stati Rabiot, Fagioli, Kostic e, per un tempo, Djuricic. Nonno Bonucci, viceversa, tanto ha dato ma temo che sia arrivato il momento. Bebè di qua, bebè di là: Allegri aveva sbagliato formazione, penso al Bonucci di cui sopra e a Barranechea (2001), sedotto e abbandonato (per la seconda volta). Meglio la versione con Cuadrado e Locatelli.

Stankovic vive di gioco, per fatuo che sia; Max, di giocate; e se manca l’Angelo custode, è facile che cada in tentazione. Neppure due gol di vantaggio, entrambi di testa – di Bremer, su angolo di Kostic; di Rabiot, su cross di Miretti – avevano offerto alla Signorinella argomenti validi per non farsi borseggiare. In 25 partite, il Doria aveva raccolto la miseria di 11 gol. Nel giro di sessanta secondi, o giù di lì, ne ha realizzati due, addirittura. Con Augello, dopo blitz di Leris, e con Djuricic, dopo volatona di Zanoli, scuola Napoli.

Le ruggini d’Europa, come no. I problemi legati, sulla carta, alla carta. Tutto quello che volete: ma di fronte, con tutto il rispetto, non c’era il Real. E Gabbiadini, per la cronaca, avrebbe potuto spaccare l’equilibrio già al 7’. I cambi hanno agitato la ripresa e orientato l’esito. Rabiot si è ripetuto, di lecca (e di braccio? Moviolisti di tutto il mondo, a voi). E poi agli sgoccioli, con gli avversari sfiniti, Soulé (2003). E Vlahovic? Ha tirato sul palo il rigorino procurato da Cuadrado e stampato sulla traversa – complice il carpiato di Turk, portiere sloveno di 19 anni, un po’ ingessato in avvio – la sgrullata dal cui rimbalzo sarebbe nato l’ultimo squillo. E’ un periodo così. Poco servito e poco «tecnico» nel controllare e smistare le briciole che gli arrivavano o rastrellava. Notizie di Pogba? Un indurimentino. Et voilà.

Undici belve

Roberto Beccantini11 marzo 2023

Come se undici belve avessero spinto il domatore fuori dalla gabbia e preso possesso del circo. Ecco a voi il Napoli contro l’Atalanta. La Dea che, ai tempi del Papu e di Ilicic, giocava più o meno così. Con un’aggressione ai limiti della circonvenzione di capaci. E a un ritmo indiavolato, quello della giustizia sportiva quando vuole.

Te la do io la calcolatrice. Il destino si è consumato dopo un’orgia di arrembaggi. Palla strappata a Ederson e servita a Osimhen, in profondità. Da Victor a Kvara, con mezza difesa in libera uscita. Occhio, allora. Come a Reggio Emilia, contro il Sassuolo, il georgiano ha preso le lavagne e le ha appese non vi dico dove. Un dribbling, un altro, un altro ancora. Non più in verticale, come al Mapei: in orizzontale, questa volta. E poi bum, di destro. Ciao Mare, ciao Musso, ciao todos.

Spalletti e Gasp sono allenatori che insegnano e non si offendono se il singolo li scavalca. E’ il segreto del calcio: del calcio, almeno, che nasce brullo nelle strade e tale non sempre resta, perché i cultori dell’oppio – e dell’ovvio – si vendono allo Schema e lo innalzano a dogma assoluto. L’eccesso opposto di coloro che, viceversa, vanno al casinò e puntano tutto sul singolo.

La velocità di crociera non è mai scesa, e alla distanza qualcosina hanno combinato persino Muriel e c. Solo qualcosina, però. Il polpaccio di Kim è stato l’unico ululato di sirena, subito cancellato dalla sgrullata di Rrahmani, lui sì migliorato dalle novelle del Certaldese. Con la Lazio di Sarri, fatale era stato un episodio. Il 2-0 all’Atalanta ha ribadito la supremazia della trama, la dittatura dell’orchestra. Scudetto in pugno, quarti di Champions in tasca (mercoledì, l’Eintracht da 2-0): e uno stadio che canta sempre. Può bastare, per ora.

Arrosto di Londra

Roberto Beccantini9 marzo 2023

Serviva personalità, non un’impresa. Lo 0-0 di Londra non appartiene alle barricate di una volta, quando le squadre italiane si asserragliavano nella propria area, in Dio sperando. E’ figlio di una Maginot elastica, che ha disarmato gli Spurs più di quanto immaginasse l’astuto Pioli. Milan nei quarti, dunque: undici anni dopo. E Tottenham fuori.

Sotto la pioggia, Conte non sembrava nemmeno Conte. Le scomparse di Ventrone e Vialli, i problemi alla cistifellea lo hanno come anestetizzato. E se non sbraita, difficile che le sue fiere possano surrogarne il silenzio della frusta. Son non è più lui da un pezzo, Kane bettegheggia lontano dalla porta, Kulusevski è un mono-schema (rientro e cross), Romero un mazzolatore che il doppio giallo ha correttamente espulso dalla trama proprio quando i suoi cercavano di raschiare il fondo del Brasile (Richarlison).

Per cadenze e pathos non pareva neppure una recita di Champions. Poche occasioni, e comunque tutte pro Diavolo, fino agli ultimissimi biglietti della lotteria: tuffo di Maignan su incornata di Kane, palo di Origi. L’1-0 di San Siro, firmato Brahim Diaz, si è rivelato scudo piccolo ma solido. Pioli ha avuto tutto da tutti – da Thiaw e Tomori a Theo e allo stesso Diaz – tranne che da Leao, le cui partite sono ormai schizzi e non più disegni. Sia vicino a Giroud, sia a sinistra.

C’è poi la storia. Che non gioca ma scorta. Il Milan, al di là di coloro che ne interpretano il momento, può scrivere un libro. Il Tottenham, no. E non si parli del k.o. di Bentancur: troppo poco, come alibi. Da una parte, il coraggio di aver (ogni tanto) paura, ma mai la paura di aver coraggio. Dall’altra, processioni sterili, senza il becco di un sussulto.
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